Il “Baro” non è riuscito a stupirmi

Piercarlo Fabbio ragiona sul Centro e su chi, nella politica Alessandrina, ha scelto di voler essere determinante comunque, nonostante abbia clamorosamente perso le elezioni

Giovanni Barosini non è riuscito a stupirmi nemmeno stavolta. Sapevo, e glielo detto, che avrebbe raggranellato tra il 12 e il 15%; sapevo che lo spazio politico da lui occupato era di sicuro più ampio pur nella sofferenza di una middle class non più spina dorsale della vittoria elettorale; sapevo che avrebbe giocato su più tavoli in preparazione al voto del ballottaggio. Sapevo che il suo sogno di fare il sindaco si sarebbe spezzato al primo arrivo dei voti di pietra. Sapevo che i sondaggi non sbagliavano nel classificarlo terzo su… tre, cioè buon ultimo, visto che gli altri due candidati avrebbero vissuto di spiccioli di consenso.

Speravo che si apparentasse con qualche coalizione, se non altro per ragioni di trasparenza. Invece è rimasto sospeso tra valutazioni e dichiarazioni mai chiare o forse ai più oscure. Del resto sono poi le due coalizioni in combattimento a riconoscerlo e a sospingerlo comunicativamente dalla parte opposta. Da questo punto di vista il motore di Barosini sono i due schieramenti. Chi non lo imbarca ne dirà male, lo descriverà come il peggio del peggio; chi lo avrà al fianco dovrà essere prudente perché le stagioni del “Baro”, così come i suoi innamoramenti politici, durano poco.

Solo i socialisti durante la prima repubblica, a mezzo tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, si potevano vantare di essere più bravi di lui. Con una differenza. Che il PSI alessandrino aveva interpreti diversi per ogni politica e chi sosteneva la strategia delle Giunte Rosse non era tra coloro che si integravano con i democratici cristiani e il pentapartito. Insomma c’era di mezzo la politica…

Giunti alla seconda Repubblica, si riteneva che il bipolarismo obbligato dai sistemi elettorali non prevedesse un saltafosso sistemico. O vince uno o l’altro. Chi prevale governa con un buon premio di maggioranza, cioè più consiglieri. E chi soccombe si oppone.

C’è una variante, che qui da noi oggi interpreta Barosini, capace già nel passato di vivere con l’opposizione di centrodestra a Palazzo Rosso e a sedersi sullo scranno di Presidente del Consiglio con la sinistra a Palazzo Ghilini, cioè in Provincia. La variante è data da una buona dose di opportunismo. Sentirsi liberi da vincoli forniti dal proprio passato e soprattutto guardare al futuro destino, cercando di scegliere il più vantaggioso. In tutto ciò c’è poca politica degli ideali e moltissima furbizia, che, non dimentichiamolo piace sempre agli alessandrini figli di Gagliaudo. Poi si possono aggiungere alcuni elementi di pensiero politico richiamando alti ideali, ma la percezione delle sue mosse sarà sempre ben chiara al popolo. Non a caso siamo nella patria del “O Francia o Spagna”: a chi si vuole darla ad intendere?

Questo non significa che tutto vada bene e che Barosini avrà un cammino lastricato solo di successi. Nel caso perdesse – vocabolo non previsto nella sua strategia – dovrà nuovamente occupare gli scranni della minoranza. Sì, della minoranza, non necessariamente dell’opposizione, visto che potrà offrire i voti del suo gruppo nel caso la maggioranza perdesse pezzi o nel caso occorresse rafforzarla. Costituire una forza politica determinante e ago della bilancia anche in Consiglio. Sarebbe l’azimut della politica iniziata tanti anni fa. Da questo punto di vista gli converrebbe, per tenere il proscenio, perdere insieme al suo alleato di giornata. Perché l’equidistanza non è un pregio, ma può sempre essere utile.

Piercarlo Fabbio

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